Tra PA e piccole aziende si sta osservando un ritorno massivo al lavoro in presenza, nonostante i dipendenti stessi preferirebbero mantenere, anche solo in parte, lo Smartworking – come visto in questo articolo sul benessere psicologico dei lavoratori italiani. In barba alle loro richieste e nuove necessità, sta trionfando la regressione a modalità di lavoro ormai frustranti, in un’ottica di “controllo”: quanti imprenditori pensano che il lavoro vero si faccia solo in azienda, che a casa “chissà cosa fanno in realtà”, che basta che i dipendenti si trovino una casa più vicina all’ufficio se il problema è quello, altrimenti cambia proprio lavoro che qua c’è gente che muore di fame.

 

Tralasciando questa visione semplicistica (largamente diffusa ahimè), l’abbandono dello Smartworking fa riflettere, così come dà da pensare il fatto che grandi aziende, soprattutto di servizi, non intendano fare questo passo indietro, dimostrando che non si tratta di un trend generalizzato.

 

Per prima cosa, vorrei ribadire alcune modalità di Lavoro Agile diffuse in tutto il mondo, riprendendo un discorso iniziato qui:

 

  • In primis c’è il Remote Working, una modalità di lavoro da casa; appartiene a questa categoria il telelavoro o Home Working;
  • C’è il Flexible Working, una modalità di lavoro flessibile, appunto, che incontra le necessità del dipendente di far quadrare vita privata e lavorativa: maggiore flessibilità oraria (part time orizzontale e verticale, lavoro condiviso, eccetera), flessibilità dei luoghi di lavoro ( da casa, in coworking, o in altre sedi ) e infine una maggiore flessibilità contrattuale, come accade per molti freelance;
  • L’ Agile Working prevede la creazione di team multidisciplinari che seguono un progetto dall’inizio alla fine scegliendo quali professionalità possano apportare un contributo reale;
  • Infine, lo Smartworking: l’Osservatorio Smart Working lo definisce come

 

“Una nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati”

 

Qui non bisogna cadere nell’errore fatto da molti di credere che si tratti di semplice telelavoro; il fraintendimento, forse, risale al primo esperimento in Italia di “smartworking”, attuato in INPS negli anni 90, che consisteva in un’applicazione più flessibile di telelavoro sfruttando pc portatili. Un esempio di come si possa cogliere novità in ambito tecnologico producendo vera innovazione su più livelli, e parliamo di trent’anni fa.

 

Fondamentale, infatti – ma non unica condizione di attuazione – il ruolo delle nuove tecnologie: nell’era della Digitalizzazione è già in atto un cambiamento, e lo Smartworking è compatibile se non addirittura auspicabile. Ci stiamo dirigendo verso una totale riconfigurazione delle organizzazioni, con team di lavoro sempre più autonomi e flessibili, sempre più dislocati, spesso in varie parti del mondo.

 

Se il nostro futuro sarà lo Smartworking è tutto da vedere, ma di certo allo stato attuale rappresenta una fase di transizione importantissima, e continuare a mostrare mancanza di interesse o una aperta resistenza significa ignorare il cambiamento e il mondo che c’è lì fuori. Parliamo tanto di Change Management, eppure ancora tante realtà, soprattutto medio-piccole, si aggrappano con le unghie e con i denti a modalità di lavoro vecchie e stantie, pretendendo di stare al passo con aziende ben più giovani e, manco a dirlo, più smart. In un naturale processo di selezione naturale, le aziende sensibili e ricettive ai grandi cambiamenti si stanno adattando, sopravvivendo e, lentamente, crescendo.

 

Ovviamente ci riferiamo a contesti in cui questi approcci siano applicabili; in ambiti produttivi, o in aziende di servizi per il pubblico, è un concetto inapplicabile. E negli altri casi?  Le resistenze sono dovute, più che ad una scarsa conoscenza, ad un umano timore del nuovo. Il cambiamento ci spaventa perché implica sempre un rischio e una messa in discussione che non tutti sono disposti ad affrontare. Digitalizzare e adottare una nuova modalità di lavoro implica un cambiamento più profondo, di tipo culturale.

 

Inoltre, nelle aziende, soprattutto medio-piccole, il controllo rassicura e ci illude di essere immuni dall’errore. Così i nostri dipendenti si limitano a svolgere il loro compito, deresponsabilizzati (tranne in caso di errore, in una logica “punitiva” e non di “crescita”) e spesso demotivati, chiusi in una struttura gerarchica di stampo tayloristica. Come afferma Domenico De Masi nel suo libro “Smart working”:

 

“Quando l’industria assorbì masse di lavoratori provenienti dalle botteghe e dalle campagne, non le fu facile addomesticarne i costumi alla netta separazione tra casa e lavoro. (…) il nuovo modo di lavorare si trasformò in abitudine, tenace come tutte le abitudini.”

Ecco dunque cosa sta succedendo in questi giorni: un ritorno ad una vecchia abitudine, rassicurante anche se superata.

 

Dalila Polico

HR Specialist